Prima dell’avvento dei Cardiofrequenzimetri, gli atleti dovevano fare riferimento esclusivamente sulle proprie sensazioni , sulla fatica percepita(RPE, Rate of Perceived Exertion) per valutare la corretta andatura di gara o di allenamento.
Questo richiedeva molta esperienza, ma costringeva l’atleta a concentrarsi su di sé, sulle sue sensazioni, una cosa senz’altro positiva.
Con l’utilizzo del cardiofrequenzimetro, l’atleta è portato a concentrarsi solamente sul numero fornito (la frequenza cardiaca), senza associarlo alla fatica percepita. Questo può portare a valutazione errate sia in allenamento o, che è peggio, in gara. Il perché è semplice: la frequenza cardiaca è affetta non solo dall’intensità di allenamento, ma da molti altri fattori, quali la dieta, latemperatura esterna, l’idratazione, lo stress, solo per citarne alcuni.
A volte può capitare che la frequenza cardiaca non aumenta come al solito, ma riusciamo comunque ad esprimere una prestazione di ottimo livello (proporzionalmente alle nostre capacità): non significa nulla, anzi significa che probabilmente stiamo andando in forma.
Negli sport in cui l’intensità di allenamento è determinabile facilmente con altri fattori oggettivi, come la corsa od il nuoto , gli atleti di elite non utilizzano il cardiofrequenzimetro, e questo la dice lunga sull’utilità effettiva di questo strumento.
Ritengo quindi che l’uso del cardiofrequenzimetro sia quasi sempre superfluo e fornisca una indicazione aggiuntiva per la valutazione dell’allenamento, piuttosto che un parametro fondamentale da controllare.
Alberto Biscardi