Tutti gli allenamenti in cui si alternano intensità elevate ad intensità molto basse (o pause da fermo), fanno parte della famiglia degli allenamenti intervallati.
Questi, in ambito sperimentale sono anche definiti HIIT (Hight Intensity Interval Training); all’interno di questa famiglia appartengono altre sottofamiglie come le ripetute, lo speed endurance ed il metodo Intermittente.
Ciò che rende unico l’allenamento Intermittente (se effettuato correttamente), è la capacità di far lavorare l’atleta ad intensità fisiologiche molto elevate con livelli di fatica muscolare inferiore rispetto agli altri metodi intervallati; questo consente di effettuare volumi allenanti superiori ad intensità fisiologiche elevate.
Quali sono i vantaggi concreti in ambito metodologico dell’allenamento intermittente?
Il metodo ad intervalli è conosciuto sin dagli anni ‘40, e la sua efficacia deriva dal fatto di riuscire ad eseguire, ad elevata intensità (ritmo gara o leggermente superiore), un lavoro maggiore rispetto ad una ripetizione unica, proprio perché le pause (attive o passive) permettono una parziale ristorazione del metabolismo muscolare.
Come abbiamo visto fino ad ora, l’allenamento Intermittente (cioè fasi più brevi) permette di ottenere ulteriori vantaggi in termini di prolungamento dello sforzo allenante, rispetto ad intervalli più lunghi.
Ma facciamo un esempio concreto per chiarire al meglio i vantaggi derivanti da questo metodo.
Lavorando alla MPA (cioè Massima Potenza Aerobica; un atleta riesce a mantenere questa intensità per una durata che va dai 4’ agli 11’.
Non solo, nella figura a fianco potete vedere un possibile andamento della frequenza cardiaca in 2 protocolli in cui il rapporto tra la fase attiva/passiva è lo stesso (cioè 2/1), come le intensità (potenza) delle fasi; è evidente che malgrado ci si aspetti che il lavoro meccanico possa essere uguale, con gli intervalli più brevi il lavoro aerobico è maggiore, testimoniato da un maggior mantenimento della frequenza cardiaca a livelli considerati “allenanti” (riga blu tratteggiata).
Questo per 2 motivi: il primo è che si verifica un minore debito di ossigeno di natura lattacida, quindi c’è un maggiore sfruttamento del metabolismo ossidativo.
Il secondo è che le continue accelerazioni dell’intermittente comportano sicuramente un lavoro più rilevante (anche se le potenze delle fasi attive sono le stesse), che deve essere ovviamente compensato con un consumo di ossigeno maggiore (e di conseguenza una frequenza cardiaca media superiore) rispetto all’allenamento con gli intervalli più lunghi..
Ma la superiorità dell’intermittente (rispetto agli intervalli più lunghi) in termini allenanti è confermata da 2 pubblicazioni molto recenti che approfondiscono i risultati della stessa ricerca.
In base a quanto detto sopra, il primo passo da effettuare è trovare le intensità allenanti della fase attiva e passiva; non potendo valutare il Vo2max e la MPA (detta anche vVo2max), è possibile orientarsi su altri 3 parametri, cioè “l’intensità di gara”, il “modello di gara” o la “percezione della fatica”.
Gli atleti del mezzofondo breve (800-3000m) effettuano poche ripetute a ritmo gara durante la stagione, proprio perché queste intensità sono particolarmente elevate e producono un elevato livello d’affaticamento.
L’utilizzo dell’intermittente, utilizzando come fasi attive i ritmi gara, permette di effettuare diversi minuti a quest’intensità, minimizzando l’effetto della fatica ma abituando il sistema neuromuscolare al ritmo specifico e stimolando particolarmente le componenti aerobiche.
Starà poi al tecnico saper dosare nei vari periodi della stagione (in base alle condizioni di forma e agli obiettivi) la durata delle fasi attive/passive e il tempo totale della seduta.
Discorso diverso sarà invece per chi affronta gare su strada (di lunghezza pari o superiori ai 10 Km).
In questo caso, sarebbe poco utile effettuare le fasi attive a ritmi gara, in quanto queste possono essere tenute con poca difficoltà anche per diversi minuti senza pause.
Non solo, la maggior parte di chi affronta questo tipo di competizioni, corre a livello amatoriale, quindi è anche da considerare (soprattutto quando si stabilisce il volume della seduta) il livello d’allenamento.
In questi casi, è possibile utilizzare come velocità di riferimento un’intensità compresa tra il Ritmo Gara 5000m ed il Ritmo Gara 3000m; questo perché a livello empirico (Christensen 2012) sono considerate le velocità più vicine alla MPA.
Ovviamente esistono differenza dovute alle individualità degli atleti, infatti per un atleta veloce è probabile che sia più verosimilmente vicina al RG3000m, mentre per un runner resistente al RG5000m.
In ogni modo sarà solo l’esperienza a dare al tecnico le soluzioni migliori.
Altro aspetto da non sottovalutare è l’estrapolazione dei ritmi gara.
In alternativa, anche in atletica leggera è possibile utilizzare la percezione dello sforzo.